lunedì 30 aprile 2018

L'invasione degli ultracorpi - Don Siegel, 1956



Invasion of the Body Snatchers – USA – 1956

Un uomo, apparentemente in preda ad una disperata mania di persecuzione, viene portato in un ospedale psichiatrico, dove racconta ai dottori una strana storia.
È il medico di una piccola cittadina della California - Santa Mira - dove si verificano da qualche tempo alcuni fatti inquietanti. Troppi suoi pazienti sostengono di notare qualcosa di strano nei parenti e negli amici più intimi. Inizialmente incredulo, in un crescendo di tensione, scopre, a poco a poco, un'orribile verità: gli abitanti di Santa Mira vengono sostituiti da corpi identici ai loro, ma privi di qualsiasi emozione. È un'invasione aliena?
"L'invasione degli ultracorpi", film a basso costo dell'americano Don Siegel, è un piccolo (80 minuti) capolavoro. Girato in bianco e nero e con un budget già limitato e corretto al ribasso, non poté scritturare attori di primo piano, come avrebbe voluto il regista, ma ebbe comunque un buon successo, diventando nei decenni successivi un vero film di culto.
Don Siegel, grandissimo professionista (è stato montatore, direttore della seconda unità e infine regista), oltre ad aver diretto diversi capolavori negli anni '50, '60 e '70 (ricordiamo "Contratto per uccidere", "Squadra omicidi, sparate a vista!", "La notte brava del soldato Jonathan", "Chi ucciderà Charley Varrick?", "Fuga da Acatraz" e altri) è stato il "padrino" artistico di altri due magnifici cineasti: Sam Peckinpah e Clint Eastwood.
Questo film ha avuto ben tre remake: "Terrore dallo spazio profondo" nel 1978, "Ultracorpi - L'invasione continua" nel 1993 (in realtà una via di mezzo tra il sequel e il remake) e "Invasion" nel 2007. Un altro rifacimento si sta preparando per il prossimo futuro, ma se ne sa poco.
Mi è sempre piaciuto, l'avrò visto una decina di volte, ha una tensione e un ritmo che non scemano mai, veramente un piccolo gioiello.


Pubblicato su "Film del Giorno", 5 Febbraio 2018

venerdì 27 aprile 2018

Furore - John Ford, 1940



The Grapes of Wrath – USA – 1940

U.S.A., inizio degli anni '30. In seguito alla crisi economica del 1929, molte famiglie di agricoltori perdono tutto (terre, fattorie e i loro poveri risparmi) e sono costrette a migrare verso un posto (la California) che possa offrire loro un lavoro, una sistemazione, un riscatto sociale.
Il film racconta le vicende di una di queste famiglie, i Joad, che partono dall'Oklahoma, carichi di speranze e illusioni che li aiutano a superare immense difficoltà durante il viaggio, dove subiscono sfruttamento, fame e lutti. Giunti nella Terra Promessa, le illusioni svaniscono e le speranze muoiono: la California, almeno per loro, è una terra di miserie, morali e materiali. Ma Tom Joad si ribella.
Il romanziere John Steinbeck, prendendo spunto da una serie di articoli pubblicati nell'Ottobre 1936 nel "San Francisco News", per documentare le condizioni di vita di una popolazione che, attratta da offerte di lavoro, a centinaia di migliaia, aveva abbandonato il Midwest per raggiungere la California, scrisse il romanzo omonimo nel 1938. Pubblicato nel 1939, fu un successo letterario e fu quasi immediatamente trasposto in sceneggiatura da Nunnally Johnson, fedele scrivano di John Ford. Lo stesso Steinbeck approvò la trasposizione cinematografica, anche se non fedelissima e meno massimalista dello scritto originale.
Il titolo originale deriva dal testo di "The Battle Hymn of the Republic" composto durante la guerra civile americana, a sua volta ispirato da un passaggio dell'Apocalisse.
Vincitore di due premi Oscar nel 1941, al regista e alla bravissima Jane Darwell (mamma Joad), il film è da apprezzare per la stupenda fotografia di Gregg Toland e soprattutto per le interpretazioni di John Carradine (Casey) e, naturalmente, del protagonista Henry Fonda, nella parte di Tom Joad. Indimenticabile il suo sguardo dolce ma determinato, lo stesso che avrà negli anni a venire sua figlia Jane, sublime interprete di tanti successi e qualche capolavoro.
"Furore" (1940) è un film in qualche modo complementare a "Com'era verde la mia valle", girato l'anno successivo. In tutti e due i film, una crisi economica epocale travolge un nucleo familiare fino al disfacimento. Ma mentre nel film del 1941, si assiste quasi ad una malinconica predica paternalistica, in "Furore", tutto risulta molto più radicale e il finale somiglia ad un richiamo all'azione (rivoluzionaria), abbastanza inconsueto per un film americano.
Senza dubbio, uno dei miei film preferiti, con sequenze indimenticabili: l’immagine riflessa di mamma Joad con i suoi vecchi orecchini, l’addio di Tom, le ultime parole del film: “Noi siamo il popolo!”.

Pubblicato su "Film del Giorno" del 4 Febbraio 2018

Il sorpasso - Dino Risi, 1962




Trovo incredibile che questo film non sia tra i tanti capolavori di "Film del giorno". Trovo invece appropriato ricordarlo nel periodo dell'anno in cui fu girato e ambientato. "Il sorpasso" è quasi unanimemente considerato un capolavoro. Di volta in volta, citato come il capolavoro della cosiddetta "commedia all'italiana", il capolavoro di Dino Risi, il capolavoro di Gassman. Film inserito nella lista dei "100 film italiani da salvare". Addirittura capostipite di un sottogenere chiamato "road movie": Dennis Hopper, gran conoscitore del cinema italiano, come molti cineasti americani, si sarebbe ispirato a questo film (uscito negli Stati Uniti con il titolo "The Easy Life") nello scrivere il soggetto di "Easy Rider". Girato nell'estate del 1962, durante il "boom economico", breve (troppo breve) periodo di benessere della borghesia italiana, riesce ad essere uno straordinario documento d'epoca e, allo stesso tempo, una sempre attualissima analisi dei pregi (pochi) e difetti (tanti) della classe media del nostro paese, senza nessun giudizio morale. Ne "Il sorpasso" sono presenti miti, usi e costumi del periodo: le canzoni da juke-box con i cantanti più in voga (Tony Renis, Peppino Di Capri, Edoardo Vianello solo per citarne alcuni), la casa al mare, le lunghe vacanze estive, le città che si svuotano in Agosto. Le prime scene sono state girate a Roma, a due passi da dove abitavo all'epoca, ma avrebbe potuto essere una qualsiasi grande città italiana. Perfetto il finale che il regista riuscì ad imporre alla produzione. Un film che non ho mai smesso di amare.

(Pubblicato su "Film del Giorno" del 14 Agosto 2017)

Com'era verde la mia valle - John Ford, 1941



How Green Was My Valley – USA – 1941

Mi ha sempre commosso la storia della famiglia Morgan. Fin da quando vidi "Com'era verde la mia valle" sulla televisione in bianco e nero della nostra casa, nei primi anni '60. La rassegnazione di fronte all'ineluttabilità della vita, in una famiglia di minatori del Galles, alla fine dell'Ottocento. Ogni sequenza, ogni inquadratura, ogni volto, raccontano la quotidianità della vita dei Morgan, simile a quella di tutte le famiglie nella piccola cittadina, che vive in simbiosi con la miniera. Che morirà, quando morirà la miniera.
Vincitore di cinque premi Oscar nel 1942, avrebbe dovuto essere diretto da William Wyler, poi rimpiazzato dalla produzione con John Ford. Anche le riprese dovevano essere realizzate nei luoghi dove è ambientata la storia e in Technicolor, ma i tragici eventi in Europa, imposero la ricostruzione del villaggio sulle montagne di Santa Monica (California) e una più economica fotografia in bianco e nero. Bravi tutti gli attori, dai più famosi Walter Pidgeon e Maureen O’Hara, al giovanissimo Roddy McDowall, fino ai soliti fedeli caratteristi: Barry Fitzgerald, Donald Crisp (che vinse anche l’Oscar, per la sua interpretazione) e altri. Rivedendolo oggi, risulta un po' retorico, a volte lievemente pomposo, certo non il migliore della sterminata cinematografia del regista di origine irlandese (circa 140 film), ma la potenza delle inquadrature, le luci e le ombre, testimoniano dell'immenso talento di uno dei più grandi maestri della settima arte.

Pubblicato su "Film del Giorno" del 3 Febbraio 2018

lunedì 23 aprile 2018

Il terzo uomo - Carol Reed, 1949




The Third Man – GB USA – 1949

Vienna, nell'immediato secondo dopoguerra, come molte altre città europee devastate dal conflitto, è una città fredda, losca, caotica. L’americano Holly Martins, scrittore di romanzetti pulp, arriva in città chiamato dall’amico di un tempo, Harry Lime. Appresa la notizia della sua morte in un incidente alquanto misterioso, rimane in città per indagare, contro il parere dell’autorità di polizia, nella persona del Maggiore Calloway, che lo informa anche dell’attività criminale del suo amico. Martins non vuole crederci e insieme all’amante di Harry, Anna Schmidt (da cui è fortemente attratto) viene a sapere che i testimoni dell’incidente non sono due, come ritenuto dalla polizia, ma tre. Alla ricerca di questo terzo uomo, si innamora definitivamente di Anna e scopre finalmente l’inganno di Harry Lime, che ha inscenato la sua morte per sfuggire alla giustizia. Non finirà bene per nessuno.
“Il terzo uomo”, diretto da Carol Reed, vinse il Grand Prix al Festival di Cannes del 1949 e, successivamente (1951), il premio Oscar per la migliore fotografia (Robert Krasker).
Considerato una pietra miliare del film noir, forse un po’ sopravvalutato all’inizio, merita di essere ricordato per la particolare e famosissima colonna sonora, composta ed eseguita alla cetra da Anton Karas e, naturalmente, per l’interpretazione iconica di Orson Welles, nella parte di Harry Lime. Pochi minuti che contribuirono in maniera significativa al rilancio della carriera di questo genio assoluto. Ricordiamo anche Joseph Cotten, nella parte di Holly Martins, Trevor Howard, in quella del Maggiore Calloway e gli splendidi occhi di Alida Valli che interpreta Anna Schmidt.
Per parte mia, ho iniziato ad amare il cinema noir proprio con questo film, che vedevo in televisione appena adolescente.
P.S. La famosa frase pronunciata da Harry Lime: “In Italia sotto i Borgia ci furono trent’anni di guerre, stragi, ecc…” non era in sceneggiatura, ma fu aggiunta da Welles per accentuare il fascino perverso e cinico del personaggio. Tra l’altro sembra si tratti di una vecchia diceria, scorretta non solo politicamente ma anche storicamente: gli orologi a cucù sono originari della Germania.

Pubblicato su "Film del Giorno" del 2 Febbraio 2018

venerdì 20 aprile 2018

Il settimo sigillo - Ingmar Bergman, 1956




Det sjunde inseglet – SV - 1956
Svezia. Epoca medievale. Di ritorno da una Crociata in Terra Santa con il proprio scudiero, Il cavaliere Antonius Block incontra la Morte. Egli non è pronto ("Dicono tutti così", gli dice la Morte), sfida agli scacchi il triste mietitore e ottiene una proroga fintantoché dura la partita; poi prosegue verso il suo castello, dove l'attende la sua sposa. Durante il viaggio, cavaliere e scudiero attraversano una terra devastata dalla peste, popolata dai vari personaggi del film, che vanno incontro al proprio destino: una compagnia di saltimbanchi, un truffatore, un fabbro in cerca di sua moglie - sedotta da uno dei comici -, una strega bambina condannata al rogo. Il cavaliere è in cerca di risposte, ma nessuno può dargliele. Quando capisce che il suo destino (e quello dei suoi compagni di viaggio) è segnato, tenta di salvare la coppia di giocolieri con il loro piccolo, gli unici che, a suo giudizio, vivono apprezzando quello che hanno, senza pensare al traguardo, riuscendo a vivere in piena armonia con la natura e con la propria coscienza.
I personaggi del cavaliere e del suo scudiero riflettono, probabilmente, le due personalità dello stesso regista: l'uomo dubbioso, che vuole sapere, vuole conoscere Dio, il suo ruolo nel mondo, il significato della vita e della morte e l'uomo pragmatico, saggio a suo modo, che si contenta di sapere quel poco per vivere soddisfacendo i propri sensi. "Il settimo sigillo", presentato nel 1957 al Festival di Cannes (dove vinse il Premio Speciale della Giuria), ha rivelato al grande pubblico il sommo regista Ingmar Bergman, il cinema svedese e alcuni attori come Max von Sydow (il cavaliere), che avrà una splendida carriera a Hollywood, la dolcissima Bibi Andersson (Mia, la moglie del giocoliere), che girerà film in tutto il mondo, e l'ottimo Gunnar Björnstrand (lo scudiero), un fedelissimo del regista svedese con il quale girò più di venti film.
Avrò avuto dieci o undici anni quando vidi la prima volta questo film e mi affascinò subito. In seguito, l'ho sempre ricordato come un capolavoro imprescindibile.

(Pubblicato su Film del Giorno, il 1 Febbraio 2018)

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